La Calabria massonica e il tabù della “zona grigia”. Il negazionismo coccolaTo dai vertici del Grande Oriente d’Italia come una (scomodissima) reliquia
Abbiamo letto con grande interesse e altrettanta attenzione il suo articolo del 24 aprile per il Quotidiano del Sud, in cui ha descritto con estrema precisione numerica l’anomala “infezione” di massoni alla quale è sottoposta, oggi più che in passato, la regione Calabria, nonché, di rimando, l’altrettanto preoccupante fenomeno d'”infestazione” del Grande Oriente d’Italia (la più importante Comunione massonica nazionale) da parte di quegli stessi massoni calabresi costituiti in falange oplitica, votati alla conquista del potere.
La domanda che Lei pone, tra le righe, è se questo stato di cose, del tutto anomalo e fuori controllo, possa costituire un problema per la Calabria, per l’intero paese e – aggiungiamo noi – per lo stesso Grande Oriente d’Italia. Ebbene, la risposta che forniamo noi, dal nostro osservatorio interno alla massoneria, è un deciso e secco “sì”.
“Sì”. E desideriamo, con calma, spiegargliene il motivo.

Iniziamo dalla Calabria, che oggi conta, secondo gli ultimi dati disponibili, circa 1.950.000 abitanti, classificandosi al 10º posto tra le regioni italiane per popolazione, posizionata tra il Lazio e la Campania. Sempre secondo le statistiche ufficiali la Calabria è nel contempo una delle regioni più povere e arretrate della nazione, addirittura fanalino di coda considerando i principali indicatori sulla qualità della vita.
In Calabria lo Stato è considerato assente, se non proprio nemico. E d’altronde, perché non dovrebbe essere avvertito così? Minore spesa nelle infrastutture, minore spesa nella sanità, minore spesa per la creazione di asili nido rispetto al resto del paese, e con quel che viene speso spesso si finisce per ingrassare l’economia criminale, con gli appalti truccati (33 milioni di euro nella sanità scoperti solo lo scorso anno) e i favoritismi di vario genere in ogni settore astrattamente produttivo.
A riprova di questi numeri, ben poco incoraggianti, negli ultimi dieci anni la Calabria ha visto emigrare centomila giovani tra i 15 e i 34 anni, che evidentemente non hanno trovato nella loro regione il substrato per realizzarsi sia lavorativamente sia più in generale come individui.
Il tessuto infrastrutturale calabrese, come detto, continua a risultare del tutto insufficiente a garantire la possibilità di uno sviluppo coerente. Basti pensare al sistema stradale, al sistema ferroviario, a quello aeroportuale. Lo stesso porto di Gioia Tauro, pur importante nelle statistiche della portualità mediterranea, costituisce più un’oasi nel deserto che quell’integrato volano di sviluppo per le attività imprenditoriali regionali, quale lo si vorrebbe. Un po’ perché manca un reale supporto teso a valorizzarlo, ad esempio: dove stanno i congrui collegamenti su rotaia e su gomma? E poi perché continua ad essere assoggettato ai tentacoli delle organizzazioni criminali: in questi primi mesi del 2025 sono già stati sequestrati container di cocaina, in arrivo dal Sud America, per un valore complessivo di centinaia di milioni di euro. Insomma, un porto di transhipment che non riesce a fare il necessario salto di qualità.
Tutto questo ha ricadute significative sul tessuto imprenditoriale regionale, che si presenta di piccole dimensioni, poco denso e a basso valore aggiunto. Pur essendo la Calabria inserita da tempo nella supply chain internazionale, grazie alla sua elevata “artigianalità industriale”, la regione se ne avvantaggia ancora troppo poco. Una delle pecche del Sud Italia in generale, infatti, è proprio il sottodimensionamento imprenditoriale; la piccola dimensione media riduce la capacità di investimento, perlomeno di quello basato sul canale naturale del credito bancario. Il che dà luogo al fenomeno dell’inglobamento delle attività imprenditoriali sane nel sistema del riciclo del denaro sporco (si veda cosa avviene con le aziende agricole), il quale ha esclusivo interesse a “lavare” le ingenti risorse economiche prodotte dal narcotraffico, dalle estorsioni, dalla prostituzione e recentemente anche dal trafficking, in collaborazione con la mafia nigeriana, e non certo ad operare investimenti da restituire alla collettività come posti di lavoro.
Questo ingenera quel processo di declassazione del Sud Italia che ben conosce chi si occupa di studi economici sul Mezzogiorno; dinamica, lo ripetiamo, ingenerata dalla carenza di innovazione e di qualificazione del capitale umano, che di rimando provoca il crollo degli investimenti. La Calabria, inoltre, non dispone di imprese di medie dimensioni, e questo finisce con il risultare un ulteriore tassello mancante.
A tutto ciò si aggiunge il deficit del sistema universitario, che partito da zero solo cinquant’anni fa continua a scontare esigue risorse finanziarie a disposizione, difficoltà logistiche per la mobilità studentesca e l’assenza di un humus imprenditoriale.
A questo quadro desolante si oppone, cone contraltare, una massiccia e fiorente economia sommersa, frutto sia di quel fenomeno “di sopravvivenza” che fa della necessità virtù, sia della presenza di pesanti fattori di illegalità diffusa.
Si tratta di un “teatro oscuro”, nel quale i diversi territori, fra loro poco connessi, recitano in maniera diversa il ruolo di protagonisti del sottosviluppo, caratterizzato dal lavoro irregolare e dalla presenza elevata di attività criminali organizzate.
In questo scenario l’evasione fiscale è da record, e fa balzare la Calabria sul gradino più alto della classifica nazionale. In termini aggregati il valore del sommerso nella regione ammonterebbe a circa 7/8 miliardi di euro. Con molti di questi denari che poi vanno in giro, magari a Milano, magari a Siena, in cerca di utilizzo e “lavaggio”, attraverso operazioni economiche regolari o altrettante (spericolate) operazioni finanziarie internazionali, per le quali un posto d’onore si è guadagnato – se la memoria non ci inganna – proprio il clan Grande Aracri di Cutro, soprattutto attraverso la Banca Monte Paschi, di cui Lei, Anastasi, ha trattato con la pubblicazione di un libro-inchiesta.
E qua veniamo al dato più saliente, perché il territorio calabrese è in effetti un vero e proprio potpourri “a vocazione criminale”, con le sue 166 cosche con oltre 4000 affiliati effettivi! Uno ogni 250 maschi adulti, un dato che supera quello dei massoni presenti sul suolo regionale. Ma non solo… perché poi al di fuori della Calabria sono tante le bande che tentano di replicare il modello ‘ndranghetista, in tutti i settori, da quelli economici, allo svago, a quelli sportivi, facendo leva sui tradizionali valori identitari della ‘ndrangheta calabrese, che fa sempre riferimento ai sodalizi criminali come ai massimi organi deputati a dettare strategie, dirimere le controversie e stabilire la soppressione o creazione di nuovi territori. Così sono state censite 25 nuove cosche in Lombardia, 16 in Piemonte, 3 in Liguria, una in Veneto, una in Valle d’Aosta e una in Trentino-Alto Adige. E poi ancora i sodalizi criminali con “squadre” straniere, in particolare con gli albanesi, i sudamericani e recentemente anche con gli africani. Una pervasività che finisce poi per abbracciare il mondo intero, dal Canada all’Australia, dall’Argentina (Buenos Aires è stata soprannominata “Nuova Cosenza”) alle Filippine. Con la ‘Ndrangheta che è oggi ufficialmente e universalmente riconosciuta come una delle prime associazioni criminali del mondo.
Ma veniamo adesso alla Massoneria calabrese. Preliminarmente chiederemo a questi simpatici signori massoni se è su questi numeri, tutti da record negativo per la Calabria, che intenderebbero intestarsi, a Catanzaro come a Cosenza, a Reggio Calabria come a Rossano o a Vibo Valentia il proprio (proficuo?) lavoro “per il bene e il progresso dell’umanità”…
Dove stanno, in Calabria, i segnali di questa distinta e premiante attività massonica? Quali miglioramenti ha prodotto, per la Calabria, l’opera di questa schiera latomistica così prolifica e invadente? In quale punto è osservabile il valore aggiunto?
O non sarà forse vero il contrario, come ci illustrò qualche tempo addietro un suo collega di Vibo Valentia, Direttore del giornale locale, e cioè che la Massoneria da quelle parti costituisce un vero e proprio freno allo sviluppo in senso moderno della società, oltreché lo stesso sottoprodotto, di scarto, di tanta arretratezza strutturale.
Perché vede, Anastasi, non è che siete voi giornalisti d’inchiesta ad essere brutti, cattivi e antipatici, solo perché cercate di porre le domande giuste, è che è proprio tutto l’insieme che non torna!
E non è che non torna perché c’è questa sospetta “esplosione” massonica in Calabria, ma perché sul tema del contrasto ideale alla criminalità organizzata una parte dei vertici della Massoneria nazionale – legga pure “Grande Oriente d’Italia” – è sempre stata e continua ad essere profondamente deficitaria. Deficitaria e omertosa tutte le volte che alle (poche, purtroppo pochissime) parole non ha fatto susseguire atti pratici e concludenti.
E noi li mettiamo tutti insieme! I Gran Maestri e i Grandi Oratori del G.O.I. degli ultimi… diciamo 25 anni? Si potrebbe dire anche 50! Non farebbe alcuna differenza, se non per il fatto che fino ai primi anni ’90 prevalevano ancora quegli aspetti ideologici (la famosa “cortina di ferro”) che mascheravano, se non celavano del tutto, le reiterate amnesie sul fronte infiltrativo.
«Seguire i soldi», diceva il giudice Giovanni Falcone, cioè seguire quelle grandi vie di denaro che dalla Calabria portavano, e forse portano ancora, all’Umbria, a San Marino, a Siena, e chissà dov’altro… magari tramite uomini come il nostro Fratello Domenico Macrì (operazione “Decollo Money”)* oppure il nostro Fratello Giancarlo Pittelli (operazione “Rinascita Scott”), e tanti altri.
Sempre tutto vissuto, nel seno della Massoneria nazionale, come un “accidente”, un qualcosa che non ci riguardava: “casi sporadici”, “fratelli che sbagliano”, che però sono stati e vengono immancabilmente impantanati in una zona grigia (ne ha parlato recentemente a Fanpage l’ex Grande Oratore del G.O.I. – oggi “pentito” – prof. Claudio Bonvecchio), con l’intento di non farli nuocere al buon nome dell’Obbedienza massonica di riferimento. Quella della quale (almeno quelli poi condannati in via definitiva) hanno contribuito, con la loro condotta penalmente rilevante, ad inquinare il terreno.
Questa “zona grigia” nel Grande Oriente d’Italia ha un nome e un cognome: si chiama a volte “sospensione” altre volte “depennamento”. Sono le modalità, scelte dai vertici associativi, per evitare di dover riconoscere come colpa massonica il fiancheggiamento alla Mafia o alla ‘Ndrangheta commesso da un “fratello”.
A questo proposito esiste un caso emblematico. Veda quanto avvenuto con il “fratello” Vito Lauria, tre volte Maestro Venerabile della Loggia n. 959 “Arnaldo da Brescia” di Licata (AG), condannato in via definitiva nel 2023 a 8 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (Operazione Halycon-Assedio) e mai espulso dal G.O.I.
Deve infatti sapere, caro Anastasi, che esiste un articolo del Regolamento del Grande Oriente d’Italia costantemente disapplicato dai Gran Maestri Gustavo Raffi, Stefano Bisi, dal fu Grande Oratore Claudio Bonvecchio, dall’ahinoi ancora Grande Oratore Michele Pietrangeli, che è rubricato al n. 187.
Non c’è nulla che esso non disciplini, in merito ai gravi reati di Mafia o ‘Ndrangheta, perché è “duro”, come piace a noi, ma allo stesso tempo “super-garantista”, come piace al Gran Maestro in prorogatio Stefano Bisi (che però si guarda bene persino dal nominarlo!).
Questo articolo afferma che il “fratello massone” che viene arrestato dallo Stato, per un reato che possa inquadrarsi astrattamente anche come “colpa massonica”, deve essere immediatamente oggetto di una “Tavola d’Accusa” interna per la sua presunta condotta. Un atto, cioè, che attesti di fronte all’Ordinamento massonico il disvalore morale del comportamento posto in essere. Un atto reso di fronte a tutti i Fratelli.
L’articolo n. 187 prevede la sua applicazione solo in seguito ad “arresto del fratello”, e ciò ne sottolinea l’operatività del tutto eccezionale e per casi specifici di particolare gravità.
Dopodiché che avviene? Che in ottica garantista il procedimento massonico si sospende fino alla sentenza definitiva di condanna o di assoluzione del “fratello” imputato. Se vi sarà la condanna definitiva il processo massonico proseguirà, dando luogo ad un Decreto di espulsione emesso dalla Corte Centrale (il massimo organo giudiziario del G.O.I.), altrimenti, cioè in caso di assoluzione, il Grande Oratore ritirerà la Tavola d’accusa e il “fratello” assolto dallo Stato tornerà nel pieno del suo status massonico, peraltro non avendone mai perduto i “diritti”, come recita precisamente un altro articolo, molto importante, rubricato al n. 7 della Costituzione dell’Ordine.
La puntuale applicazione dell’art. 187 del Regolamento, in seno al Grande Oriente d’Italia, renderebbe in questo modo certo il disvalore massonico del reato di concorso in associazione mafiosa. La sua disapplicazione rende invece, in merito, tutto fumoso e per nulla chiaro.
La domanda a questo punto è (la poniamo a Stefano Bisi da tre anni e l’ha sempre elusa come la peste): “Perché contro Mafia e ‘Ndrangheta non si parte dall’applicazione di questo semplice e preciso articolo del nostro Regolamento?”
Perché se ne evita la puntuale applicazione? Perché non si vuole inquadrare come antimassonica la condotta di favoreggiamento mafioso?
Possibile che il punto sia stato ben compreso, nella sua portata, dal solo prof. Di Bernardo, che non è neppure un giureconsulto ma un filosofo politico?
Possibile che ci siamo dovuti far spiegare dal prof. Di Bernardo, attraverso un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano, che un “depennamento” è mero atto amministrativo e non equivale ad una espulsione disposta dall’Organo di giustizia interna? E che fino all’espulsione, per effetto dell’art. 7 della Costituzione dell’Ordine commi a) e c), un “fratello” resta sempre un “fratello”, con tutte le proprie prerogative massoniche? E da utilizzarsi dove, queste “prerogative”? Forse in carcere?
Perché il Gran Maestro Stefano Bisi e il Grande Oratore Michele Pietrangeli non hanno il coraggio di affermare che l’associazione in concorso mafioso è contraria ai landmarks massonici, e non trovano in loro la forza di comportarsi di conseguenza? Cosa li trattiene?
Magari, caro Anastasi, potrebbe provare a chiederglielo Lei, a Stefano Bisi e Michele Pietrangeli, per la sua testata giornalistica, il Quotidiano del Sud. Chissà che non sia più fortunato di noi, ed ottenga risposta.
Che ci fa nel nostro Ordine massonico un pregiudicato come Vito Lauria? Perché non è mai stato sottoposto a procedura d’incolpazione massonica a norma del nostro Regolamento? Perché non sono stati sottoposti a Tavola d’Accusa Domenico Macrì, Alfonso Tumbarello, Giancarlo Pittelli, Lucio Lutri, Davide Licata, Achille Andò e i tanti altri “fratelli” che in questi anni sono finiti nelle patrie galere per reati connessi all’associazionismo mafioso?
FINORA TUTTE DOMANDE SENZA RISPOSTA.
*Si precisa che nel 2021 Domenicò Macrì è stato assolto per non aver commesso il fatto. L’operazione ha portato alla condanna dell’ex direttore del Credito Sammarinese Walter Vendemini. È in corso il giudizio d’Appello su impulso della Procura.